Circa mezzo secolo fa John Percivale Taylor, il più grande storico inglese del secolo scorso, scoprì con grande stupore che nel mondo erano stati pubblicati più libri su Napoleone che su qualsiasi altro essere vivente. Annoverò con meraviglia duecentomila titoli circa pubblicati verso la fine dell’ Ottocento e, attualmente, dovrebbero essere più o meno 750 mila in qualche decina di lingue; cifre da capogiro, ma si tratta di un computo approssimativo perché nessuno ritenta il calcolo da molto tempo. Quella dell’epopea napoleonica non è più una storia, ma la vicenda di una figura che, a duecento anni dalla morte, si conferma come fenomeno sociologico. E a giustificarlo è, per esempio, la forza visiva dei grandi scontri campali e, tra questi, è sicuramente annoverata la battaglia di Arcole, nel corso della quale avvenne uno degli episodi più evocativi dell’epopea napoleonica.
Nell’ottobre del 1796 le forze francesi che dovevano costituire la direttrice d’offensiva sul Reno vennero respinte, l’operazione fallì miseramente e gli austriaci poterono impiegare molte risorse sul fronte italiano trasformando il Tirolo nella base di raccolta delle truppe –che finirono per costituire un’armata di 46.000 sotto gli ordini del barone d’Alvinczy. All’inizio di novembre, contestualmente alla proclamazione della Repubblica Transpadana, ebbe inizio la mobilitazione generale delle truppe; il comandante asburgico marciò con poco meno di 30.000 uomini lungo il Brenta, verso Bassano, mentre il suo subalterno Davidovich puntava su Trento, lungo l’Adige: entrambe le colonne avrebbero poi dovuto ricongiungersi verso Verona per procedere alla volta di Mantova. I francesi non si aspettavano l’arrivo di una seconda colonna tanto consistente e le truppe nemiche presero Trento con relativa facilità, i contingenti francesi si attestarono a Rivoli, mentre anche l’armata principale mieteva successi sbaragliando a Caldiero alcuni reparti di fanteria. Il comandante transalpino si sentì quasi perduto dal momento che non disponeva dei mezzi sufficienti per far fronte alle forze d’invasione e avrebbe dovuto distaccare molte unità impegnate nell’assedio di Mantova, dando a Wurmser la possibilità di attaccarlo da tergo con altri 20.000 uomini.
Alla fine scelse, nonostante l’inferiorità numerica, di tentare un attacco contro le forti posizioni di d’Alvinczy (non più di 18.000 soldati contro i 23.000 attestati tra Caldiero e Arcole) trasgredendo al suo dogma per cui, per colpire per primo, occorreva essere in nette condizioni di superiorità. Gli riuscì però di individuare un terreno stretto e paludoso, tra l’Adige e l’affluente Alpone, su cui sorgeva Arcole, entro il quale si sarebbe potuto giocare la possibilità di annullare, o quantomeno attutire, gli effetti della superiorità nemica.
Si pose come obiettivo il villaggio di Villanova, poco a nord di Arcole, dove erano concentrati i carri delle salmerie di d’Alvinczy, e il cui possesso avrebbe precluso al nemico sia l’avanzata su Verona a ovest che il dispiegamento di uno schieramento su un terreno più favorevole a est.
Lo spostamento dell’esercito francese avvenne durante la notte tra il 14 e il 15 novembre lungo la riva sinistra dell’Adige ma, se subito dopo l’attraversamento del fiume il contingente di Massena riuscì a occupare il contiguo villaggio di Porcile, quello di Augereau faticò a raggiungere Villanova, ostacolato dal continuo fuoco delle batterie distanziate alle soglie di Arcole. Il cittadino generale Bonaparte, come ancora si fa chiamare, è ben consapevole che solo la conquista di quell’obiettivo gli avrebbe consentito di prevalere. Si mise egli stesso alla testa degli uomini di Augereau per dare slancio all’ennesimo attacco frontale. Scese in campo strappando di mano il tricolore ad un porta bandiera di reggimento e lo sventolò guidando la carica alla testa della prima linea; esponendosi al nemico. Uno zelante ufficiale portaordini intuì l’imminente scarica incrociata della linea nemica e, cercando disperatamente di coprire il generale, gli fece scudo saltandogli addosso e facendolo cadere da cavallo. Il comandante finì nel canale, da dove fu tratto in salvo dal suo attendente, tutto sporco di fango, proprio mentre il contrattacco all’arma bianca da parte degli austriaci sanciva il fallimento dell’assalto.
Arcole venne infine conquistata, ma alle sette di sera, quando ormai il grosso dell’esercito austriaco si era attestato a Villanova e, temendo un massiccio contrattacco incrociato di Davidovich, Napoleone dovette ritirare tutte le truppe oltre l’Adige, lasciando in mani nemiche entrambe le teste del ponte di Arcole assieme a quelle di Porcile, dove ancora giacevano più di 2500 soldati francesi caduti pocanzi. Tuttavia il giorno seguente, non avendo notizie della mobilitazione della terza colonna austriaca, Napoleone guidò nuovamente le proprie truppe alla riconquista del ponte, gli scontri furono altrettanto aspri e costarono molte perdite a Davidovich, che però resistette e riuscì a tenere in pugno l’insediamento di Arcole, ma non di Porcile, dove i francesi entrarono lasciando solo un piccolo contingente per tener testa ad un eventuale attacco nemico. Che però non si materializzò e rimase una possibilità teorica, giunsero invece a Napoleone 3000 uomini di rincalzo con cui potè ragionevolmente imporre l’apporto di un’insperata superiorità numerica (tanto auspicata su ciascuno dei due tronconi in cui si era diviso l’esercito nemico, parte nella palude a ridosso della testa del ponte di Porcile, e parte oltre l’Alpone). Fu in quest’ultimo settore, dove stazionavano le truppe al diretto comando di Alvinczy, che il generale Bonaparte concentrò nella giornata del 17 il suo maggiore sforzo. Mentre molti reparti convergevano ad Alpone, e truppe di Massena tenevano occupate quelle nemiche asserragliate ad Arcole, Augereau doveva aggirare più villaggi guadando il fiume ad est all’altezza di Albaredo e puntare quindi su Villanova. Massena riuscì a disimpegnarsi brillantemente, schierando una sola brigata in una posizione visibile e nascondendo il resto del suo contingente lungo gli argini del fiume: attirò allo scoperto le truppe austriache distanza ad Arcole che si gettarono all’assalto di quelle unità che parevano una facile preda per le loro baionette, ma questi arretrarono conducendoli alla portata di tiro del resto delle linee, che ne ebbero facilmente ragione. Così Massena riuscì ad occupare almeno una parte del villaggio. Ma Augereau fu colto da un fitto fuoco all’altezza di Albaredo e non potè sopravanzare per ricongiungersi a Massena. A risolvere la situazione fu ancora una volta il genio di Napoleone, per il quale l’arte della guerra consiste anche nel dissimulare forze maggiori di quelle avversarie. Il giovane generale inviò un reparto di guide ed ordinò a quattro trombettieri di attraversare il fiume; questi riuscirono a guadarlo senza essere visti dal nemico e, una volta alle spalle degli austriaci di Albaredo, fecero un chiasso tale da sembrare la fanfara di un’intera armata in marcia. Così fecero temere al comandante dell’avamposto l’arrivo di un imminente attacco a sorpresa da tergo e si affrettò quindi a congiungersi al resto dell’esercito d’Alvinczy, lasciando ad Augereau il passaggio libero. Ciò spinse il comandante in capo austriaco ad ordinare la ritirata generale verso l’unica via di fuga rimasta sgombra, marciando cioè ad est, verso Vicenza.
La determinazione e l’immaginazione di Napoleone l’avevano spuntata, questa volta più di ogni altra in precedenza e, nonostante la perdita di 4500 uomini -a fronte dei 7000 caduti austriaci- il suo sforzo era riuscito ad impedire la realizzazione di tutti gli obiettivi (dal massimo al minimo) del nemico; ovvero ogni forma di aiuto a Mantova, il congiungimento delle forze e l’occupazione di Verona. Poco dopo, infatti, il generale potè mandare della fanteria in aiuto alle posizioni francesi a Rivoli e Davidovich dovette a sua volta ripiegare verso Trento. Tuttavia lo smacco subito dall’esercito asburgico non assunse, per l’ennesima volta, le dimensioni di una disfatta. L’impero austriaco aveva certamente subito una cocente sconfitta, ma rimanevano comunque nelle condizioni di sferrare una nuova offensiva in qualunque momento, fino a quando avessero conservato il possesso di un’importante testa di ponte e avessero detenuto una posizione come quella di Mantova.
Carlo Alberto Ghigliotto