I tatuaggi in epoca napoleonica

I tatuaggi erano conosciuti fin dall’antichità, e anche da prima, per l’abitudine di molte culture tribali di farne ampio uso (si vedano ad esempio i Maori). Proprio il contatto con queste culture li fece tornare in auge anche in occidente a partire dalla seconda metà del diciottesimo secolo.
Nella società francese i tatuaggi erano visti in modo negativo, in quanto associati a persone di infima condizione sociale, come criminali, prostitute e marinai, i quali a volte usavano far tatuare i propri figli prima di imbarcarsi per lunghi viaggi in modo da poterli riconoscere al loro ritorno.
Per quanto riguarda i soldati, allo scoppio della Rivoluzione i tatuaggi erano ormai abbastanza diffusi. Questi venivano realizzati dai soldati stessi (ogni compagnia probabilmente aveva il suo “artista”) con aghi e una sorta di inchiostro a base di polvere nera. Per prima cosa il tatuatore tracciava il disegno o la scritta sulla pelle e poi lo realizzava, anche a colori, se tinte come l’indaco o il vermiglione erano disponibili.
L’inchiostro veniva mischiato con la saliva, che veniva usata anche per pulire i nuovi tatuaggi. Solo nella seconda metà del Diciannovesimo secolo si iniziò a sospettare che la pratica potesse essere legata alla diffusione di malattie.
Ci sono pochi testi dell’epoca che parlano dell’argomento, ma un manuale di scienza medica del 1820 parla di vecchi soldati con le braccia e il petto coperti di tatuaggi con i nomi di famosi generali, di commilitoni, di amanti e di grandi battaglie in cui avevano combattuto.
Un altra testimonianza del 1811 afferma che i francesi copiarono i soldati dell’Hessen di ritorno dalle Americhe o dall’India con il nome delle fidanzate sul braccio.
I tatuaggi potevano essere delle semplici decorazioni, ma anche un modo di esprimere la propria fede politica. Un maestro d’armi prigioniero degli inglesi si fece tatuare un’aquila imperiale sul bicipite, ma quando tornò al reggimento dopo la caduta di Napoleone nel 1814, venne duramente ripreso dal colonnello a causa di ciò. Per cavarsi d’impiccio, l’uomo si fece tatuare il giglio sull’altro braccio. In modo simile, un altro veterano dell’Impero durante una visita medica rivelò un tatuaggio che diceva “vive le roi” (viva il re); l’uomo fu lesto a cambiarlo in “vive le rôti” (viva l’arrosto).
Il caso più eclatante riguarda però Carlo XIV, re di Svezia e di Norvegia, che aveva cominciato la sua carriera militare come Jean-Baptiste Jules Bernadotte, un umile soldato figlio di un avvocato. Alla sua morte gli trovarono un cappello frigio decorato dalla scritta “mort aux rois” (morte ai re) tatuato sul petto (qualcuno dice invece sul braccio).

[di Cesare Croci, illustrazione di Sabrina Modenese]

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