MEMORIE DI UN CHIRURGO-MAGGIORE, DEL BATTAGLIONE VALESANO IN RUSSIA. 1812
Il testo si legge bene ed è ben scritto, presentando le vicende personali del suo autore fornendo delle notizie utili del suo reggimento, particolare principale che esso era formato interamente da italiani malgrado la sua numerazione “francese”. Questo si relaziona alle operazioni dell’ala sinistra della Grande Armée di cui faceva parte. Seguendone perciò le drammatiche vicende dell’andata e ritorno dal Niemen! Il testo, che presenta una buona qualità del testo, è stato tradotto nella sua forma originale, salvo che alcune correzioni d’ortografia ed alcuni rari commenti, lasciando il lettore di ritrovarsi immerso nel tempo nella sua lettura; ciononostante i suoi ricordi non sono del tutto esatti con la realtà storica, ma esse sono le espressioni del pensiero del vissuto di una terribile campagna ritenendo onesto mantenere il testo del nostro dottore.
L’11° reggimento di fanteria leggera, inizio 1812.
Il nostro reggimento, l’11° reggimento di fanteria leggera, composto da quattro battaglioni e di una compagnia d’artiglieria, in tutto 3600 uomini, lasciava Wesel il 28 febbraio. Esso doveva fare parte della 2ª divisione del 2° corpo della Grande Armée, comandato dal maresciallo Oudinot, duca di Reggio. La 2ª divisione era sotto gli ordini del generale Verdier.
Lo stato-maggiore del reggimento si componeva dei MM. Casabianca, colonnello; Cacherano de Briqueras, maggiore; Delponte, Mano, Blanc e Signoretti, capi battaglione. gli altri ufficialidi cui ho conservato i nomi nella mia memoria erano: MM. Pétel, maggiore per le partenze; Cagnazzoli, Morel, Albert, aiutanti-maggiori; de San-Bias, Beltrutti, Casalta, Ollagnier, Boirini, Raltazzi, Guidi, Del Caretto, Landinelli, Buscaglione, Bruna Tessiore, de Broglio, Pianelli, Dumoye, Gay, Pierre-Marie Dufour, capitani; gli ultimi tre valesani; Chambon, ufficiale pagatore; Fleury, Bochat, Bertrand, Louis Dufour, Voëffray, tenenti, gli ultimi tre valesani. Un terzo fratello Dufour era ugualmente ufficiale nell’undicesimo.
Nell’artiglieria serviva MM. Clemenzo, Champion, Andenmatten, Caréna, de Quartéry e Ramorino. Quest’ultimo si segnalò nella rivoluzione della Pologna, ed ebbe nel 1833 un comando nell’esercito di don Pedro. C’erano come aiuti chirurghi e sotto-aiuti MM. Montazeau, Rhodi, Castelli Pauly e Lacombe. MM. Torrazzo e Rosconi furono nominati più tardi all’armata.
Il reggimento fece una prima sosta di 8 giorni a Wolfenbüttel, una seconda di 5 giorni a Brandenbourg, una terza di 10 giorni a Marienwerder.
Il colonnello voleva giungere sulle frontiere della Russia con tutti i suoi uomini opponendosi a che i malati entrassero negli ospedali, ebbi a questo soggetto diverse discussioni più accese con lui. Quando arrivammo a Brandenbourg, più di cento malati ci seguivano su dei carretti. Presentai con energia a M. Casabianca i doveri che mi imponevano le mie funzioni, senza lasciarmi sconcertare dalle sue esplosioni. “Sono il chirurgo-maggiore– gli dissi– e se devo vigilare a che nessun soldato non lasci il reggimento simulando una malattia, devo anche fare entrare negli ospedali quelli che sono realmente malati… e lo faranno.”Ed egli mi replicava, “Ed io sono colonnello, e non voglio che vi entrano.” Pronunciate queste parole, egli si girò su se stesso, estrasse la sua spada per metà da fodero e la reinserì di scatto. “Lo vedo bene –dissi – che non ho più niente da fare qui: vogliate farvi mandare un altro chirurgo-maggiore”. Aggiunsi che nonostante tutto che dopo un esame scrupoloso e severo avevo designato per l’ospedale solo i soldati gravi e che egli stesso avrebbe fatto lo stesso, se voi esaminerete i malati a vostro turno. Potrebbe essere l’ipotesi che voi stesso lascerete qui alcun degli uomini che io, spero possano guarire nel frattempo, possiate farli seguire successivamente su dei carretti la marcia. Mi replicò: “ Ebbene si, Signor dottore – esclamò il colonnello con collera –vedrò i malati.” Egli mi disse di fissare un’ora per l’indomani. Gli segnalai che stava a lui indicare il momento di una sua visita e quindi avevo solo bisogno di sapere a cosa attenermi. Ciascun capitano ricevette l’ordine di portare l’indomani, ad un’ora del pomeriggio, i suoi malati nella corte della casa dove risiedeva il colonnello. I capi battaglione furono convocati a loro volta. Cosa si doveva fare ad un uomo che voleva essere obbedito, anche se doveva essere fatto esattamente. Solo che io decisi di essere assente. Ciononostante non volli spingere troppo oltre la resistenza; vidi che M. Casabianca mi stimava, e che i suoi modi scorbuti e dispotici venivano meno da un carattere altezzoso e di un umore preoccupato che da un eccesso di zelo e di una vivacità naturale tipiche di un giovane uomo di 28 anni: rimasi al mio posto aspettando che mi chiamasse. Cosa che pensavo che avvenisse; dopo inutilmente atteso, mi mandò a cercare. Andai senza dubbio pensando di poter essere rimproverato e messo agli arresti per avere mancato la riunione; però non lo fece: il colonnello si accontentò di dirmi e con un tono molto calmo: “Vi siete fatto attendere, dottore,” Risposi molto tranquillamente che non credevo che la mia presenza era necessaria ad una visita nella quale, lui, colonnello, poteva adempiere alle mie funzioni; che avevo fatto un rapporto scritto e che continuavo con le mie convinzioni. “ Andiamo – mi disse punto nell’animo, vediamo questi uomini.” Egli vide i malati uno dopo l’altro, e designò quelli che sembravano dovere essere mandati all’ospedale. Ogni tanto mi domandava il mio parere: glielo diedi aggiungendo invariabilmente queste parole: “del resto, giudicherete voi stesso.”
Terminata la visita, il colonnello aveva scelto cinquantasette uomini; io ne avevo scritti che quarantasei sulla mia lista. L’evidenza matematica era a mio favore, e non esultai mediocremente del mio trionfo. Tutti gli ufficiali conoscevano la scena della vigilia; la mia rivincita era pubblica; ero soddisfatto e non dovevo più testimoniare dei risentimenti ad un capo che, del resto, era degno sotto tutti gli aspetti di stima e di rispetto. Prendendo dunque la parola, espressi a M. Casabianca, senza la minima ostinazione, come i sintomi apparenti cui potevo vedere, in qualità di medico, con migliore capacità il valore avendo esagerato ai suoi occhi alcune malattie. Egli si accostava senza malumori ai miei sentimenti; furono compilati i biglietti per l’ospedale come avevo in precedenza annunciato, lasciammo nelle migliori condizioni e gli ufficiali approvarono alla fermezza che avevo dimostrato. Alcuni giorni dopo, in occasione di un rapporto che feci sulle condizioni sanitarie, il colonnello mi disse delle cose gentili; gli espressi tutto il mio dispiacere che mi aveva causato ciò che era successo a Brandenbourg e il rimpianto che ebbi nel vedere che egli non aveva nel suo chirurgo-maggiore la confidenza necessaria. Elgi mi prese allora la mano e mi disse in tono più che benevolo: “Mio caro N…, vi assicuro che non ho mai avuto l’idea di non fidarmi del vostro zelo e del vostro talento, ne quello di recarvi del dispiacere. Siate certo che non eseguirò più tali visite e che vi lascerò nel vostro servizio una piena libertà. Se mi ritroverò ad avere ancora delle rimostranze a questo soggetto, non fateci attenzione, vi prego di continuare nel vostro lavoro. Sono obbligato – aggiunse – alcune volte di gridare per stimolare gli ufficiali spensierati; può succedere che la mia collera sembri ricadere su coloro compiano il loro dovere; non sempre, credetemi, riesco distinguerli.” Successivamente mi diede la mano, dicendomi: “dottore, senza rancore.” Dal quel giorno non incontrai nessun ostacolo nel mio servizio.
Fu a Marienwerder, come ho già detto, che il 2° corpo fece la sua ultima sosta prima di entrare in Russia. Le truppe furono distribuite nei diversi accantonamenti. Al reggimento fu dato ordine di munirsi di farina, ciascun soldato doveva portarsi quattro libbre nel fondo del suo zaino. Il nostro stato-maggiore fu alloggiato nel castello del conte di Groeben. Questo signore fu obbligato a nutrire tutti gli ufficiali, compiendo questo incarico senza umore ma con grande parsimonia. Egli esercitava nel suo castello e nella città che portava il suo nome un potere dispotico. Un domestico che aveva sbagliato nel suo lavoro fu rinchiuso durante il nostro soggiorno in una bassa prigione e riempita d’acqua; senza il nostro intervento avrebbe subito il supplizio del bastone. M. il conte di Groeben , quando partimmo, mi salutò e che mi augurava molta fortuna; ma che malediceva l’impresa che stava compiendo Napoleone.
Dall’entrata in Russia alla prima battaglia di Polotsk (giugno-agosto 1812)
Lasciando gli accantonamenti di Marienwerder, ciascun reggimento era stato ordinato di portare con se un certo numero di buoi. Fatte le requisizioni molto irregolarmente lasciava la desolazione ed il malcontento nelle città. Fu verso il 25 giugno, dopo avere trascorso per i preparativi prima della rivista dell’Imperatore a Gumbinen, che il 2° corpo d’armata passava il fiume Niemen presso Kovno. Ebbe l’ordine successivamente di dirigersi verso la sinistra, sulla strada di San Pietroburgo, mentre la Grande Armée con Napoleone marciava a destra su Vilna, nella direzione di Mosca. Il 1° agosto il mio reggimento incontrava per la prima volta i russi a Sébez, presso Wilkomir. Questo scontro, nel quale la nostra sola avanguardia fu impegnata con la retroguardia russa, ci causò diversi feriti. Il nemico si è ritirato bruciando le sue case.
Arrivammo a Polotsk verso il 12 agosto, tutti gli abitanti erano fuggiti ad eccezione degli ebrei. Uno o due preti solamente erano rimasti a guardia del magnifico convento dei gesuiti che si poteva ammirare in questa città. Avanzammo ancora fino a quando fummo fermati nella nostra marcia e perfino respinti. L’artiglieria russa i cui pezzi sparavano più lontano dei nostri aveva senza dubbio una superiorità reale. In seguito di un impegno al di là di Polotsk fummo costretti a ritirarci. Feci stabilire un’ambulanza in alcune case di un villaggio posto presso un piccolo ruscello, i feriti erano numerosi; l’artiglieria nemica ci seguì; per fermarla ci fu dato l’ordine di incendiare le case del villaggio. Non posso dire il momento esatto in cui le case iniziarono a bruciare, i soldati noncuranti misero il fuoco a quelle che io avevo predisposto il mio servizio. Li fermai! Un generale si trovava ad alcuni passi non lontano: lo supplicai di fare difendere per un po di tempo ancora la posizione. Egli fece tornare un battaglione che tenne testa ai russi e mi lasciò il tempo necessario di evacuare i miei feriti.
Il 17 agosto fummo protagonisti ancora di un sanguinoso combattimento, avvenuto a Swolna. Il maresciallo Oudinot venne ferito. Il colonnello Casabianca venne mortalmente ferito al collo lanciandosi nel mezzo dei suoi tirailleurs. Accorsi immediatamente presso di lui, scampando per miracolo a numerose palle che fischiavano tutte intorno a me. M. Casabianca spirò durante la notte, mentre operammo la nostra ritirata su Polotsk. I carabinieri portarono il suo cadavere su una barella. Lo seppellimmo davanti a Polotsk e il reggimento gli eresse un piccolo monumento in legno. Fui incaricato di comporre l’iscrizione funeraria; scrissi queste parole: “Dulce et decorum est pro Gallia mori”.[1]
Il nemico aveva delle forze superiori alle nostre; si doveva schiacciarlo senza lasciargli il tempo di riordinarsi; solo a questa condizione potevamo rimanere a Polotsk. Il generale Gouvion Saint-Cyr, che aveva assunto il comando, era risoluto ad infliggere un colpo inatteso e decisivo. L’indomani 18, di buon mattino, fece manovrare tutti i suoi corpi d’armata in maniera di fare credere al generale russo Wittgenstein che egli stava compiendo una ritirata e che la stava facendo coprire. Una parte dell’artiglieria e tutti i suoi equipaggi ripassarono la Dwina; ma allo stesso tempo delle batterie nascoste dalla fanteria erano state disposte in faccia al nemico. Alle cinque di sera fu dato il segnale dell’attacco. Subito le batteria si leverarono aprendo il loro fuoco; la fanteria si dispose da tutti i lati e si precipitava sull’armata russa, che, in due ore, fu sbaragliata e rigettata al di là delle sue posizioni. La notte sulla quale il generale Gouvion Saint-Cyr aveva contato impediva al nemico di riordinarsi e forzare le sue riserve a rimanere inattive.[2]
Il generale Wittgenstein non si aspettava di essere attaccato che nel momento in cui i nostri primi colpi cadevano sulle sue truppe, egli era per metà svestito e si riposava del caldo della giornata, dopo avere mangiato. Questa vittoria fece ottenere a Gouvion Saint-Cyr il bastone di maresciallo. Il generale Verdier era stato ferito da un colpo di fucile. Riuscì immediatamente a compiere l’estrazione della palla.
Durante la battaglia, mi portai con i miei aiutanti dietro il reggimento; ma la maggior parte delle ferite gravi esigevano delle amputazioni; inoltre le palle russe ci esponevano ai più grandi pericoli; trasportai la mia ambulanza sulla riva opposta della Dwina in un grande convento dove si trovavano già i chirurghi di quasi tutti gli altri reggimenti. Il primo ferito che scorsi entrare nella corte era un aiutante di campo del generale Verdier che mi aveva detto alla vigilia: “Dottore, non mi lascerò mai amputare.” Egli aveva una coscia fracassata, l’amputazione era urgente; egli si sottomise senza esitazione e praticai l’operazione sul campo e nella stessa corte. Gli altri ufficiali di sanità erano rientrati dall’indomani presso i loro reggimenti, e fui perciò obbligato di operare la maggior parte dei feriti della divisione. Il chirurgo maggiore attaccato specialmente all’ambulanza della divisione era un tale ignorante che non poteva fare la più piccola operazione, anche se riuscì bene a rimanere assolutamente invisibile. Mi è permesso di dire che senza i miei aiutanti ed io, quasi tutti i feriti gli sarebbe mancato il primo soccorso. MM. Pauli e Cassetti mi assecondarono con molto zelo ed intelligenza.
Al campo di Polotsk (agosto-ottobre 1812)
Dopo questa vittoria i Russi ci lasciarono stabilire tranquillamente un campo trincerato davanti a Polotsk. Il generale Maison prese il comando della nostra divisione. Il nostro primo compito fu di costruire delle buone baracche per difenderci dal freddo, nel caso in cui dovevamo mantenere la nostre posizioni durante l’inverno. Dal comandante fino all’ultimo soldato, tutti erano impegnati nel lavoro, come architetti, muratori e falegnami. Le case dei sobborghi di Polotsk erano stati demoliti per fornirci il materiale necessario. Io costruii insieme ai miei aiutanti un piccolo appartamento di due stanze con un camino e un pavimento. Alcuni ebrei ci vendettero dello zucchero, del caffè e anche del pane bianco. Grazie ai razziatori recuperammo del bestiame, del tabacco, delle coperte, delle pellicce, delle uova e sovente anche dei dolci. Il vino mancava completamente, lo sostituimmo con dell’acqua vite di grano. Questa bevanda causò nella divisione delle indisposizioni numerose, ma senza gravità. La nostra vita diventò di una monotonia esasperante, e la nostra inazione ci affliggeva poiché ci faceva credere che l’Imperatore non si era fermato dal suo lato. La notizia della battaglia della Moskova avvenuta il 7 settembre, e di cui si esagerò il risultato, ci rianimò riempiendoci di gioia per alcuni giorni; ma questa grande vittoria non aveva cambiato la nostra posizione, iniziammo perciò a dubitare del successo della campagna.
Si rincorreva ad una serie di piccoli espedienti per difenderci contro la noia: si giocava, si prendeva il te. La scoperta di una ghiacciaia ci aveva dato l’idea di tentare di fare dei gelati; ne facemmo in effetti qualche volta. Riempimmo di uova e di crema il cilindro in ferro bianco nel quale i furieri mettevano la loro compatibilità; li immergemmo successivamente in un miscuglio di ghiaccio e di sale, e ciascun ufficiale doveva girare il cilindro a suo turno, fino a che avveniva la congelazione. Si gettava allora la crema ghiacciata in una gamella e ciascuno prendeva la sua parte.
A metà ottobre il freddo, si fece sentire, avvertendoci che era venuto il tempo di prendere le nostre precauzioni contro l’inverno. Ni procurammo le nostre provvigioni di legna, a tappare le fessure nelle nostre baracche che poteva filtrare l’aria esterna, e creare dei piccoli magazzini di viveri. Mi industriai soprattutto a procurare del sale, della farina e del grasso. Quanto al burro non ci potevamo pensare. Il mio domestico, un ragazzo ex muratore, nominato Braurt, che avevo preso al mio servizio attraversando la Prussia, si trovava con i miei cavalli al parco delle nostre bestie: lo incaricai di mettere da parte del grasso di vitello e di vacche abbattute e di cui ce ne servivamo sovente per fabbricare delle candele. Riuscì lo stesso a riunire alcune libbre di sale e una dozzina di libbre di farina. Avevo inoltre nel mio furgone dell’ambulanza un prosciutto acquistato a Marienwerder. Queste differenti provvigioni non dovevano essere consumate solo quando tutte le altre risorse venivano a mancare. Inoltre riuscì ancora preparare un roux spesso e salato che ho formato in compresse e che disciolto in acqua dava in pochi istanti una zuppa molta sostanza. Presto arrivò il momento dove l nostre precauzioni diventarono le une inutili, viceversa le altre estremamente preziose.
Seconda battaglia di Polotsk (18 ottobre 1812)
Il 16 ottobre, al reggimento giunsero circa 300 nuove reclute venute per la maggiore parte dagli Sati Romani. Era il M. R… padre della mia prima moglie che li comandava e che li portò a Polotsk. Il 17 a sera il cannone si fece sentire sugli avamposti e i Russi si impadronirono di alcune posizioni. Non si dubitava che per l’indomani ci sarebbe stato uno scontro. La nostra armata era troppo debole per lottare con vantaggio contro i corpi di Wittgenstein, che aveva ricevuto da molto tempo dei rinforzi considerevoli! Il maresciallo Saint-Cyr non intedeva dunque oppore una resistenza ostinata ma solamente evacuare Polotsk onorevolmente e in buon ordine. Ciononostante nessuno conosceva le intenzioni del generale in capo; si ignorava l’incendio di Mosca, e nessuno si aspettava di battere in ritirata l’indomani. In effetti, il 18 in mattinata, le truppe furono messe in allerta. Nel momento in cui furono sparati i primi colpi di cannone dai Russi, sentii M. Dufour, cadetto di Monthey, dire al suo capo battaglione: “Mio comandante, guadagnerò oggi la croce d’onore.” Egli rimase ucciso alcune ore dopo lanciandosi alla testa della sua compagnia per cacciare i Russi da una ridotta di cui si erano impadroniti. M. Bertrand, altro ufficiale valesano, morì anch’egli mentre stava incoraggiando i suoi uomini. Poche reclute giunte due giorni prima scamparono alla morte; questi ultimi per vendicarsi delle barzellette che gli altri soldati gli avevano rivolto al loro arrivo, si lanciarono verso il pericolo con un sublime coraggio. Stabilii la mia ambulanza sulla strada il più vicino ai sobborghi. La ritirata che la forza dell’armata russa e la debolezza della nostra armata sembrava dover rendere inevitabile operando senza dubbio su questo punto. Evacuammo la nostra posizione la sera dopo avere messo il fuoco al nostro campo e ci ritirammo con molto ordine dietro la Dwina. La brigata svizzera incaricata di proteggere il movimento compì in maniera ammirevole la sua missione. Fu solo dopo le dieci di sera, dopo avere disputato al nemico e alle fiamme una parte della città, che essa passava a suo turno e per ultima sul ponte che fu immediatamente incendiato.
Il maresciallo Saint-Cyr, ferito nell’azione, non lasciò tuttavia il comando e ordinava il 19 la ritirata in quattro colonne su Smoliany. Il generale Maison, dopo il maresciallo, comandava la colonna di cui il mio reggimento ne faceva parte. Tutti resero giustizia all’attività e alla prudenza di questo generale. la ritirata che egli diresse può essere l’avvenimento militare il più significativo della campagna, in questo punto del mese. Cinquanta mila russi inseguivano per un mese le nostre quattro colonne ridotte a 10000 uomini e non potevano impedirci di raggiungere l’armata di Mosca a Bobr.
Il 31 ci trovammo a Smoliany il maresciallo Victor che era giunto da Smolensk con un corpo d’armata forte da 10 a 15000 uomini. La nostra posizione era molto vantaggiosa per dare battaglia a Wittgenstein, e già tutti si erano preparati per l’azione, quando Victor, poco d’accordo con Saint-Cyr, batteva in ritirata forzandoci a fare altrettanto.
In ritirata verso la Beresina (novembre 1812)
Alcuni giorni dopo, e per quanto mi posso ricordare, il 6 o l’8 novembre, divenne tutto di un colpo un freddo intenso. Anche se non è così dilagante per quanto ha fatto successivamente, questo improvviso cambiamento di temperatura giunse inaspettatamente e l’esercito soffrì quasi interamente. Il vento del nord e una neve fine ci sferzava così crudelmente il viso da farci disperare. In questi primi giorni di freddo il nostro corpo ebbe un serio impegno a Czarniki. Ebbi l’occasione di posizionarmi durante l’azione in una casa di un piccolo villaggio e fare del mio meglio le operazioni e le bendature; ma la vittoria del nemico mi costrinse ad abbandonare questo posto di soccorso con una sessantina di feriti che poteva marciare. Non ebbi altra risorsa durante la notte che mettermi con questi sfortunati in un granaio senza porte. Il vento gelido soffiava entrando dal tetto formato in alcuni settori da alcune tavole mal disposte e in altri casi mancanti. Per tutta la notte i miei poveri feriti avevano le membra congelate passarono una notte spaventevole; l’indomani li abbandonammo nello stato miserabile in cui si trovavano; poiché essi non erano in grado di seguire l’armata a piedi, e ci mancavano mezzi di trasporto. Sdraiati in un angolo su della paglia, non eravamo riusciti, il mio aiutante-maggiore ed io, a mantenere i nostri corpi caldi. Questa improvvisa comparsa del gelo subita fu per l’armata di Napoleone, che tornava da Mosca, l’inizio di grandi disastri. Essa gettò nel lago Semlewo gli ornamenti del Cremlino e la croce del grande Ivan.
Il 6 novembre l’Imperatore apprese a Mikalewska la cospirazione di Malet. Il 15 si seppe che dovemmo raggiungere l’Imperatore. Una gioia universale accolse questa notizia. Era tanto tempo che non sentivamo più parlare dell’armata di Napoleone e ignoravamo le sconfitte che aveva subito. Tutti i comandanti di corpo ricevettero l’ordine di fornire i loro rapporti per le proposizioni sulle decorazioni e avanzamenti di grado: il maresciallo Oudinot che aveva ripreso il comando del nostro corpo d’armata doveva trasmetterli all’Imperatore. M. Delponte, il capo battaglione più anziano, che comandava il reggimento dopo la morte del colonnello Casabianca riunì gli ufficiali per avere il loro parere sulle ricompense da domandare. Io mandai un dei miei aiutanti a questa riunione di cui non conoscevo il motivo. Che sorpresa quando fui informato che ero stato proposto come Cavaliere della Legione d’Onore. Ciò che riguardava soprattutto era che si trattava di una decisione unanime, prima di parlare dei militari posti sotto i loro ordini, avendo richiesto la croce per il chirurgo maggiore che, dicevano loro, aveva reso dei servizi a tutti. M. Delponte mi onorava di una stima particolare e non aveva bisogno di questa preghiera per fare una proposta in mio favore; ma la sua amicizia dimostrava con un grande piacere i sentimenti che si aveva per me nel reggimento. La testimonianza di stima che mi dava in questa occasione il corpo degli ufficiali e l’esperienza nell’ottenere una ricompensa, oggetto dell’ambizione di tutti i militari, e che non avevo sollecitato ne direttamente ne indirettamente, mi causava una soddisfazione che crebbe sempre di più, quando appresi che di tutti i chirurghi del corpo d’armata proposti per la croce della Legione d’Onore ero stato solo contestato dal maresciallo che si era limitato a domandare per i miei colleghi degli altri reggimenti la decorazione della Réunion. Tuttavia, dopo i primi movimenti di gioia, quelli in cui una distinzione lusinghiera il ha dato luogo a ha preso a dubitare che l’imperatore ha voluto dare alcuni
ricompense per un corpo d’armata, che era stato guidato da Polotzk e di recente era stato battuto a Czarniki. Noi ignoravamo che Napoleone era stato battuto a sua volta, che la sua armata era stata distrutta e che non aveva più speranze oltre a noi per ripassare la Berezina. Era in questa alternativa di paura e di speranza che arrivammo la sera del 21 a Bobr. Il reggimento mise il bivacco dietro la città abbandonata dagli abitanti. Stavo andando a cercare un villetta di campagna; i predoni e i dipendenti delle varie amministrazioni avevano invaso tutto. Una casa era vuota; un soldato è morto alla soglia della debolezza o dalla malattia, aveva fatto allontanate tutti. Mettemmo il cadavere all’esterno e ci sistemammo al suo posto. Questa era la nostra ultima notte e l’ultimo passabile riparo che trovammo fino al nostro ritorno in Prussia.
L’indomani mattina mi recai al bivacco, vidi M. Delponte venire verso di me con un piccolo nastro risso in mano; egli mi disse che l’Imperatore aveva accolto tutti le 19 preposizioni che gli erano state fatte; era stato letto di fronte a ciascun reggimento i nomi di chi era stato decorato e che era diventato cavaliere dell’Impero e della Legion d’Onore. Una cantiniera mi diede una spilla per fissare il mio nastro rosso sul mio petto; provai una immensa gioia dimostrando al contempo un dispiacere di non poterlo fare attaccare dalla mia fidanzata. Lei era a Wesel in preda alle più grandi inquietudini e priva di mie notizie da diversi mesi.
Il passaggio della Berezina (26-28 novembre 1812)
Nel momento in cui ricevemmo i favori dell’Imperatore, ma in una maniera ancora incompleta, i disastri dell’armata che lui comandava. Sapevamo già che l’avanguardia russa di Tschitchakoff giungeva dalla Turchia dove era stata siglata la pace ci aveva anticipato a Borisow, aveva distrutto il ponte e ci barrava la grande strada di Vilna al di là della Berezina. Non avevamo altra scelta che marciare alla testa di un’armata di 60’000 uomini o di aggirarla, sia al di sopra sia al di sotto. Confidando nella presenza dell’Imperatore e ignorando la debolezza dell’armata di Mosca e la forza dei Russi che la avvolgemmo da ogni lato, mentre noi eravamo all’oscuro dei loro movimenti, eravamo preoccupati solo per il passaggio della Beresina e il nostro rifugio in Prussia. Il corpo di Oudinot continuava quindi a marciare in prima linea su Borisow, dove giungemmo il 25 novembre.
Il nemico occupava dall’altro lato della Berezina una posizione formidabile, con 180 cannoni e la maggiore parte delle sue forze che dal 21 aveva raggiunto l’avanguardia. Il mio reggimento rimase fermo a Borisow per quattro ore, ma fortunatamente i soldati che mi seguivano ordinariamente come aiuti dell’ambulanza scoprirono in una piccola casa dove mi ero già installato una trentina di libbre di bella farina. Il nostro primo impegno fu di approfittare del forno che lo si trovava in tutte le case russe e di fare il pane. Del succo di uva spina conservato in aceto di birra ci servì come bevanda. Tuttavia il tempo era stretto, ci siamo cosi sbrigati a cuocere il nostro impasto senza indugio senza aspettare che lievitasse, e quando verso le 10 di sera, abbiamo ricevuto gli ordini di lasciare Borisow per marciare verso Studzianka, il nostro pane era cotto. Alcuni chirurghi della guardia imperiale ci sostituirono nella casa che abbandonammo, gli lasciammo alcuni panetti fatti da noi.
Studzianka è un piccolo villaggio sopra Borisow. Poteva essere facilmente gettato un ponte in questo punti dove il fiume era guadabile. L’Imperatore, per confondere il nemico sul punto esatto dove contava effettuare il suo passaggio, forniva l’ordine a un battaglione di operai di riunire apparentemente verso Oukoholda, durante la giornata e la notte seguente, una grande quantità di materiali. Allo stesso tempo egli fece interrogare degli ebrei sulle strade che portavano a Minsk lasciandoli liberi successivamente, pensando che avrebbero riferito ai russi sulle questioni che si voleva far credere. Ciononostante il generale Eblé preparò nel più grande silenzio presso Studzianka tutto quello che era necessario per gettare all’alba un ponte sul quale si doveva fare passare immediatamente alcuni reggimenti. Fu una notte solenne quella della notte del 25 al 26 novembre. Essa doveva decidere della sorte dell’Imperatore e degli ultimi suoi battaglioni. Se il nemico aveva lasciato la posizione che occupava a Borisow per posizionarsi di fronte a Studzianka,era stato provocato dai resti dell’armata francese, e ciononostante, l’indifferenza dei soldati fu tale, che si non si percepiva sui loro visi dei nostri nessuna inquietudine. Noi credevamo in Lui, gli uomini dell’11° reggimento che avevano le più belle voci si riunirono per interi plotoni e durante la notte le foreste selvagge che attraversammo risuonarono dei più armoniosi canti italiani. L’Imperatore si fermò sulla strada di Borisow a Studzianka nel castello del principe di Radzvill alfine di assistere l’indomani alla posa del ponte; Egli sentì i canti e ne fu contento.
Il 26, all’alba, tutti i materiali erano pronti: furono sufficienti poche ore per la costruzione del ponte; ma si verificò un incidente ai cavalletti centrali non permise di ultimare il lavoro che verso l’una del pomeriggio. Per fortuna, il nemico, che dalla notte si trovava in forze e di fronte a Studzianka, aveva ricevuto l’ordine di ritirarsi. Furono lasciati solo alcuni reggimenti in osservazione con alcuni cannoni. Il lavoro attivo ma simulato che Napoleone fece al di sopra di Borisow furono senza dubbio la causa del ritorno dei russi verso questa città.
Uno squadrone di cavalleria attraversò la Beresina al guado, portando in groppa dei cavalli una compagnia di voltigeurs che dovevano sloggiare dalla riva i tirailleurs russi durante il passaggio dei primi reggimenti. Il mio reggimento passò per secondo. L’Imperatore circondato da alcuni marescialli si trovava vicino ad un fuoco all’entrata del ponte. La presenza di Napoleone non riuscì a privarmi della mia razione di pane che avevamo prodotto il giorno precedente a Borisow. Fu, sicuramente, nel mentre di questa vicenda un piccolo episodio, ma nel raccontare la mia storia piuttosto che quella dell’armata non potendolo passare sotto silenzio.
Fu dato l’ordine, in modo da rendere il passaggio dei primi reggimenti più rapido e di non farsi impegnare sul ponte ed allo stesso tempo mentre le truppe, non c’era nessun cavallo per i bagagli. Questo ero a conoscenza; ma sapevo anche che non ci si conformava strettamente ai primi ordini. Uno di questi piccoli cavallo polacchi che si chiamava cognato portava i miei abiti, la mia scatola di amputazione, le provvigioni che avevo fatto a Polotsk e un superbo prosciutto che ho avuto modo di prendere dal mio furgone ambulanza dove avevo tenuto di riserva fino al nostro arrivo a Studzianka. Questo furgone era riempito di abiti nuovi e di strumenti da chirurgo; può essere che non tutto poteva passare e che forse il prosciutto era il solo bene che potevo salvare. Temendo che il mio domestico, un ragazzino poco intelligente, ebbe delle difficoltà a trovarmi avendolo lasciato indietro con il mio cavallo dei bagagli, lo feci venire a fianco della bestia, tra il primo e secondo battaglione. lo seguì tenendo il mi cavallo da sella per la briglia. Giunto nei pressi dell’imboccatura del ponte quando per sfortuna; l’Imperatore posto a dieci passi da lì si voltò dal mio lato, vedendo il piccolo cavallo e ordinava a Berthier di farlo retrocedere. Invano dissi che questo cavallo portava i miei vestiti, Berthier mi chiuse la bocca dicendo: “E’ l’ordine dell’Imperatore”. Il fatto era comunque indegno dell’attenzione di un imperatore; ma questo era una contravvenzione ad un ordine importante, a da questo punto di vista, una cosa grave. Una replica in simili momenti non era possibile; feci ripiegare il mio cavallo, ma senza avere perduto la speranza di farlo passare più tardi. I voltigeurs si impegnarono a loro volta sul ponte: approfittai di un momento dove l’attenzione di Napoleone, e di coloro che lo circondavano era attirata da una fucileria che si sviluppava sull’altra riva tra i russi posti in osservazione e il primo reggimento che aveva passato il ponte, feci entrare il piccolo cognato nei ranghi di una compagnia e riuscì così a nasconderlo e farlo passare. Se non ero riuscito a salvare i preziosi rifornimenti che stava trasportando, è quasi sicuro che sarei morto di fame con i miei aiutanti: il parco del bestiame che seguivamo non poteva passare la Beresina, e per sette giorni non ci fu possibile di procurarci dei viveri di nessuna specie. Durante questi tristi momenti la nostra divisione fu occupata a tenere impegnate le forze russe di Tchitchakof in modo da permettere ai resti dell’armata di Mosca di passare sulla strada di Wilna, e in seguito a coprire la ritirata come retroguardia. Riuscì a scampare al pericolo e al contempo di essere privato di tutte le mie provvigioni. La negligenza del mio domestico mi fece credere di essere spogliato da un momenti all’altro; poiché in questi terribili momenti la proprietà non fu rispettata; il mio primo interesse fu perciò, quando il reggimento prese posizione, e che la notte mise fine alla fucileria, di dividere con i miei aiutanti il pane e il prosciutto, lasciando al mio domestico solo la farina, il sale e il sego. In questo modo, se uno di noi sarebbe stato rubato, con tutte le nostre disposizioni non sarebbe
persa. Si è convenuto che il prosciutto sarà consumato solo nell’ultimo estremo e quando tutto il resto è esaurito.
Tornando ai grandi eventi. I corpi del maresciallo Oudinot erano passati per primi la Beresina. L’Imperatore lo seguiva con la sa guardia, che ci serviva da riserva. Il resto della Grande Armée attraversava la palude di Zembin. Fino al 29 le nostre divisioni, simili a delle ondate fluttuanti, tanto erano state potenti con il nemico, come altrettanto erano state sconquassate dal nemico. Il tempo si era addolcito e il termometro non segnava più di 7/8 gradi. Questa era una grande fortuna; poiché potemmo ripararci solo con le betulle, e come letto i rami e foglie di questi alberi sdraiandoci sulla neve, come bevanda la neve sciolta e per alimenti dei viveri trovati dai soldati sui cadaveri nemici o amici. Per la maggior delle volte si aveva ancora nei fondi degli zaini dei rimasugli di biscotti che erano stati distribuiti in precedenza. Il 28 ebbe luogo il disastro dei ponti della Beresina. Attaccati da Wittgenstein che ci inseguiva da Polotsk e da Kutuzov che inseguiva l’Imperatore, il maresciallo Victor era incaricato di proteggere la ritirata da questo lato venne costretto a lasciare la sua posizione e di passare la Beresina a sua volta. Sia per mancanza di comando, sia impensabile incuria, una grande parte dell’artiglieria e quasi tutte le vetture degli equipaggi erano rimasti dall’altro lato del fiume con un gran numero di sbandati. Quando i colpi russi raggiunsero questa folla, essa si precipitava in disordine sui ponti da dove per alcune ore nessuno riusciva a passare. Il corpo del maresciallo Victor fu obbligato ad effettuare il suo passaggio alle stesso tempo, accrescendo la confusione. L’orrore di questa situazione giunse al suo culmine. In questi terribili istanti, il 2° corpo fu attaccato vivacemente. Se l’Imperatore accompagnato da Murat non forse accorso alla testa della sua guardia per sostenerci e respingere il nemico, saremmo stati sbaragliati. Il maresciallo Oudinot in questa azione fu ferito una seconda volta. L’Imperatore in questi giorni aveva come copricapo un berrettone di pelo foderato. Io mi occupai dei feriti in un bosco di abeti e mentre stavo terminando un’amputazione il mio povero domestico ebbe il braccio strappato da una palla di cannone. Il mio cavallo che egli teneva per le briglie per poter saltarci su velocemente in caso di necessità, fu ucciso con lo stesso colpo. Uno dei nostri capitani ebbe il petto attraversato da una palla. Ha avuto la fortuna di trovare una piccola slitta con un cavallo; in questo modo poté ritornare in Francia dove in un paio di mesi fu in grado di guarire. Ho fatto, per quanto mi ricordo, tre amputazioni nei boschi; il freddo era così intenso che ero obbligato ad interrompere più volte le operazioni per scaldare le dita. Non ricordo ad altri chirurghi che abbiano praticato delle operazioni simili in queste condizioni. Il mio domestico ebbe la forza di seguirmi per cinque giorni; speravo di portarlo con me; per sfortuna egli cadde in una mischia con dei cosacchi. Se in questo fatale affare e durante la disastrosa ritirata, l’esercito francese spesso compì prodigi di valore, non possiamo nascondere che i generali e lo stesso imperatore spesso commisero dei gravi errori, i russi a commettere ancora di più e che in diverse circostanze, di essere tutti fatti prigionieri di guerra. Se le truppe di Tchitchakov per esempio avevano avuto la precauzione arrivando avanti a noi sui margini della Beresina di bruciare i ponti delle paludi di Zembin, la ritirata era occupata al 2° corpo e l’armata tutta intera obbligata di arrendersi. Non si comprende questa mancanza del nemico; poiché la grande quantità dei fagotti che aveva accumulato nelle vicinanze dei ponti non permise di valutare le sue intenzioni di incendiarli. Il 29 novembre alle otto del mattino il generale Eblé fece incendiare i ponti della Beresina e il 2° corpo incaricato di coprire la ritirata lentamente scossa. La nostra divisione comandata dal generale Maison contava tuttal più un migliaio di uomini. Il mio reggimento composto delle truppe leggere era di retroguardia. Siamo stati costantemente molestati dall’avanguardia russa e vigorosamente attaccato verso sera al punto dove ci siamo fermati durante il primo ponte della palude di Zembin, che il generale Maison fece bruciare con materiali preparati dal nemico. Successivamente, gli altri ponti sono stati bruciati; ma la marcia dei russi fu solamente ritardata di poco. Essi avevano tutto il necessario per ripristinare i ponti e potevano inquietare il nostro fianco.
Le circostanze speciali in questo caso era che i ponti di Zembin, era assolutamente necessario per il passaggio dei resti della Grande Armée, non lo erano per i suoi inseguitori, il gelo intenso che si abbatté quindi gli permise loro di attraversare la palude congelata “a piede asciutto”.
Fine della ritirata di Russia (dicembre 1812)
il 1° dicembre fummo ancora attaccati davanti a Pleszezenity. Malgrado la nostra bella difesa e il coraggio del generale Maison, tutta la retroguardia era perduta senza l’arrivo di un rinforzo di 1800 polacchi. Questa giornata fu per me piena di avvenimenti poco importanti e che ciononostante non dimenticherò mai. Al mattino scorsi nel nostro bivacco una bambina abbandonata di 5 o 6 anni. Volevo portare la povera bambina con me, ma questo non fu possibile, e dovetti rinunciarvi. Nel momento in cui lasciammo i nostri fuochi, vidi un cavallo sellato e con briglie senza il suo cavaliere. Riuscì ad impadronirmi, fortunatamente, potendo sostituire il mio buon Espagnol che avevo perduto il 28. Nel momento in cui ci fu l’allarme che ho avuto modo di parlare in precedenza, la grande strada e il ponte furono tutto d’un tratto ingombri di fuggitivi, mi diressi verso la palude la cui acqua mi sembrava completamente gelata. Il mio cavallo, i cui ferri erano usurati, avanzava lentamente; nel giro di 10 minuti il ghiaccio si ruppe sotto i suoi passi. Lo trascinai faticosamente per le briglie e il nemico stava guadagnando terreno alle nostre spalle. Un gruppo di cosacchi comparve improvvisamente sul fianco sinistro dove le paludi e tutto quello che si trovava davanti a me si mise a correre. Fui travolto da questa fuga e costretto a lasciare la presa del cavallo. Appena lasciai il mio cavallo, scorsi un individuo che mollava una piccola vacca che conduceva con una corda. Guardai intorno a me, valutando la distanza che mi separava dai russi, speravo di riguadagnare la grande strada dall’altro lato del ponte, servendo come idea ai miei compagni un pasto sontuoso al quale già si faceva festa, tutto questo per me fu un affare di un istante. Presi la corda e portai con me la bestia. Ma, tuttavia, la piccola vacca non aveva paura ne dei cosacchi ne dei russi, essa camminava del suo lento passo rallentando ulteriormente appena cercai di tirarla. Capii che se mi ostinavo, sarei stato preso tra i due gruppi nemici. Lasciai perciò la mia bestia e tornai così sui miei passi. Alcuni cavalieri intanto andarono incontro ai cosacchi; erano polacchi di cui ho parlato in precedenza. I cosacchi ripiegarono, l’avanguardia russa si fermò e noi fummo riconosciuti.
Giunti sulla grande strada trovai alcuni soldati del reggimento e due dei miei aiutanti maggiori. A M. Pauly, l’uno dei due, gli era stato rubato il suo cappotto senza che se ne accorgesse, mentre era a cavallo; il avait eu l’obligeance de se charger du mien. Vedendo come era difficile salvarsi con un cavallo, e credendo che in caso di allarme non era obbligato di mettere piede a terra, distaccai alcuni vestiti e ho montato cinghie di spallacci, che mi permisero di portarli sulla schiena. Fummo separati dal reggimento, e non sapevamo se si trovasse davanti a noi oppure dietro. Ciononostante avanzammo comunque, quando incontrammo su un sentiero di traverso che si dirigeva verso destra, un sottufficiale incaricato di dire a tutti gli uomini del reggimento che avrebbe visto passare, di lasciare la grande strada e di prendere il villaggio la stradina laterale giungeva. Era una buona notizia, poiché potevamo sperare di trovare alcuni viveri nel punto particolare fuori dalla strada. Seguimmo allora la strada che ci era stata indicata. All’uscita di un bosco che lo attraversava, trovammo in una pianura molto estesa, ad una mezza lega da un villaggio e da una castello. In questo villaggio scorgemmo dei razziatori di tutte le armi, ma il nostro reggimento non c’era. Evidentemente eravamo stati male informati oppure era stato dato un contrordine.
Comunque riuscimmo ad avere qualcosa per consolarci dalle nostre sfortune. Un gran numero di prosciutti coprivano la superficie di una tavola. I razziatori si precipitarono sugli animali. I nostri soldati li imitarono tornando dal castello con dei bidoni pieni di acquavite. Uno dei nostri corse alla fonte, tornando con un marmitta piena di liquore. Un prosciutto e una marmitta di acquavite! Che fortuna in simili circostanze. Per trasportare più facilmente la nostra bestia lo tagliamo subito in due parti che piazzammo sul piccolo Cognat caricato con i nostri effetti personali. Ma ecco che comparvero tutto di un tratto dei cosacchi che si misero all’inseguimento di alcuni dei nostri. Fu un panico generale. i miei aiutanti ed i soldati volevano lascare la nostra preda e ci nascondemmo in un bosco. Giunta la calma, riuscì ad infondergli un pò di coraggio e fargli comprendere che mentre i cosacchi erano occupati ad inseguire gli uomini sparsi nella pianura, noi avremmo avuto il tempo di metterci in sicurezza senza abbandonare le nostre provvigioni. Sfortunatamente non conoscevamo il giro che compiva la grande strada che dovevamo riprendere. Mi ricordai solo del nome del punto in cui la nostra armata doveva fermarsi per la sera. Nel nostro turbinio, perdemmo la direzione che dovevamo seguire nel bosco. Incontrammo un ebreo che costringemmo a servirci da guida. Ma non ci avrebbe tradito o portandoci al nemico? Completamente disorientati, ci sembrava che ci conduceva lungo una strada diversa. Su mio ordine, il nostro uomo fu legato con una cinghia di fucile, l’arma che aveva ucciso il nostro maialino fu caricata e significava per il povero diavolo che sarebbe stato fucilato se ci portava sul nostro cammino verso i russi. Dopo questa terribile minaccia gli mostrai una moneta d’oro e gli dissi che sarebbe stata sua se ci portava dove volevamo andare; si gettò ai miei piedi promettendomi di essere la nostra guida fedele. Marciammo per mezz’ora nel bosco quando uno dei miei aiutanti-maggiori, M. de Montazeau, che dall’ultima allerta aveva l’immaginazione piena di cosacchi, gridò: “O mio Dio davanti a noi i cosacchi!” nonostante dei tronchi d’albero tagliati avendo ben presto una causa di paura ben peggiore. Sentimmo il rumore di una viva fucilata. Si trattava si pensava di uno ingaggio tra l’avanguardia russa e la nostra retroguardia. Con nostra grande preoccupazione; l’esercito francese sarebbe stato fermato presso il posto fissato e che, a parere della nostra guida, distava a non più di un quarto di lega! Questa incertezza era dolorosa, comunque non durò a lungo e ci rassicurammo dall’avvicinarsi della notte e non tardammo a raggiungere il nostro reggimento. La nostra pancetta e la marmitta di acquavite erano arrivate senza intoppi e con gioia li dividemmo con i nostri compagni di sfortuna. Il ricordo che descrivo non è certo di grande interesse, ma certamente riguarda le miserie e i pericoli di questa fatale ritirata nella quale il solo interesse per ciascuno era la propria sussistenza divenendo l’unica preoccupazione di ognuno. Si vedeva dei commissari, dei sotto ispettori, dei generali, portare sulle spalle una misera bisaccia, in cerca di ogni genere di alimento. Non esistevano più dei gradi nell’armata e, lo si deve dire, gli ufficiali non ottenevano nessuno vantaggio attraverso le loro azioni quanto alle loro uniformi. Ciononostante alcuni di loro avevano conservato il sentimento dei loro doveri, si trattava certo di caratteri molto temprati, o degli uomini che erano stati molto fortunati per procurarsi delle risorse.
Il 3 dicembre tutto d’un tratto il freddo si fece più terribile aumentando d’intensità. Vidi quel giorno l’Imperatore marcare a piedi nel mezzo di una coda di militari vestiti nei modi più stani. Egli stesso indossava una pelliccia avendo la testa coperta da un berrettone foderato.
Il 4 il termometro scese a meno 26°. Il generale Tchaplitz ci pressava così energicamente che senza l’eroismo del maresciallo Ney e del generale Maison non avremmo potuto passare la notte a Malodeczno, borgo assai considerevole dove trovammo alcuni legumi secchi. Il mattino del 5, il freddo era tale che restarono solo 60 uomini sotto le armi per comporre la retroguardia della quale l’Imperatore affidava il comando al maresciallo Victor. Fortunatamente, i Russi, ingordi come noi, non erano disposti ad attaccarci di quanto noi potevamo difenderci. Ero talmente stanco quel giorno che mi lasciai cadere nella neve, se l’idea che non mi sarei più alzato mi fece compiere uno sforzo supremo. Trovai presto un riparo presso degli ufficiali che mi diedero un po’ di acquavite che mi rianimò.
Nella notte dal 5 al 6 dicembre l’Imperatore lasciava l’armata a Smorgony per tornare a Parigi dove egli portava il 29° bollettino della grande armata. Se gli storici animati da
un’odiosa passione hanno osato dire che egli aveva disertato l’esercito, hanno dimostrato di questa insinuazione insidiosa che non conoscevano la situazione dell’esercito nel momento della sua partenza e che non hanno capito la necessità di un veloce
ritorno in Francia, che ha permesso a Napoleone di organizzare un nuovo esercito. Se l’Imperatore fosse partito prima della Beresina mentre ci trovavamo circondati su tutti i lati e che un solo squadrone polacco devoto si offrì di scortarlo per dei sentieri attraverso la Lituania, può essere che si meritava il rimprovero; ma eravamo a Smorgony, noi ricevemmo dei rinforzi da Vilna; l’impossibilità di tentare alcuna operazione strategica non ci permetteva più che una sola cosa da fare: usare i soccorsi che ci arrivavano per continuare la ritirata il più velocemente possibile e facendo fronte ai Russi. In queste circostanze, le accuse portate contro l’Imperatore erano evidentemente ispirate da odio e malafede.
L’8, ritrovammo quasi tutte le forze in una casa dove si trovava M. Beltrut de San-Bias. Il 9, in mattinata, raggiungemmo infine Vilna. Il termometro era salito di diversi gradi, M. lo chef de bataillon Blanc, che era stato mandato da Polotzk a Vilna per scortare dei prigionieri russi, ricoprì in quest’ultima città le funzioni di maggiore di piazza. Incontrai il suo domestico che stava uscendo da un fornaio, con alcune pagnotte di pane bianco; egli i condusse al suo alloggio e strada facendo mi diede una delle pagnotte che divorai immediatamente. Il padrone della casa mi accolse nei migliori dei modi e mi diede una eccellente cena. Verso sera, alcuni cosacchi si avvicinarono ai sobborghi di Vilna. Il terrore si espanse in città. Consapevoli che una fuga precipitata avrebbe portato delle conseguenze disastrose e che un attacco condotto più seriamente l’indomani, convinsi M. Blanc a lasciare Vilna nella notte. Ci mettemmo in cammino alle 10. Salimmo facilmente le alture di Ponari dove il giorno seguente l’ingombro fu tale che quello che restava dei bagagli dell’armata cadeva nelle mani dei Russi.
Fino dal 5 dicembre il mio reggimento era stato disperso, i soldati marciavano isolatamente. Un battaglione, al comando di M. Signoretti, era scappato alla rotta. Mandato da Polotzk a Vilna con dei prigionieri di guerra ci raggiunse a Smorgony. Da Vilna gli rimaneva solo che un centinaio di uomini.
Arrivai il 12 a Kowno in serata. Trovai un riparo caldo presso gli ufficiali che comandavano il deposito. La finirono le nostre miserie. I Russi, molto affabili a loro volta per i rigori del freddo, ci inseguirono lentamente; giunti al Niemen le truppe fresche accantonate nella vecchia Russia fermarono la loro marcia. A Königsberg, dei biglietti affissi su tutti i muri indicarono a ciascun reggimento un punto di riunione. Il nostro, che contava 3400 uomini al passaggio del Niemen, riuniva ora circa cinquecento uomini circa in un villaggio posto nei pressi di Königsberg. Dovetti particolarmente rimpiangere in questa ritirata M. R.. padre della mia prima fidanzata. Estenuato dalle privazioni, affaticato dalla vecchiaia, egli non ebbe la forza di seguire il reggimento che si allontanava da Vilna. Non riuscì mai a sapere se era caduto alla fame, o sera era caduto sotto il ferro dei cosacchi. Gli parlai per l’ultima volta durante il passaggio della Beresina. Al momento di guidare la sua compagnia verso il nemico, egli passò vicino a me e mi domandò se avevo del pane. Gli risposi che non ne avevo, accorgendomi che la domanda che mi fece era per altri ufficiali e soldati. Allo stesso tempo lo tirai per il braccio dandogli la metà di una pagnotta di due libbre che portavo sotto il mantello. Il desiderio di dividere con un amico il poco che avevo, il timore di suscitare invidia ed a volte anche l’egoismo, si doveva ammettere che ognuno agisse con un certo mistero.
FINE
[1] Qui esiste una confusione delle date: il combattimento di Swolna dove Casabianca fu ferito mortalmente è del 11 agosto, mentre Oudinot fu effettivamente ferito il 17 a Polotsk il primo giorno della battaglia.
[2] La notte tuttavia, impediva anche a Saint-Cyr di sfruttare il suo successo, ed anche le sue riserve non furono impegnate, il nemico non ne aveva. Questo “mezzo-termine” di un attacco alle 17:00, era imposto, diciamo noi, dalla spossatezza delle truppe, essendo il prezzo da pagare in cambio della certezza che il nemico non avrebbe avuto il tempo di approfittare di un fallimento eventuale dei francesi.